giovedì 2 giugno 2011

LUIGI PIRANDELLO


LUIGI PIRANDELLO



IL TRENO HA FISCHIATO…

Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio, ov’erano stati a visitarlo. Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via:
-         Frenesia, frenesia.
-         Encefalite.
-         Infiammazione della membrana cerebrale.
E volevano sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere  compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.
- Morrà? Impazzirà?
-Mah!
-Morire, pare di no…
- Ma che dice? Che dice?
- Sempre la stessa cosa. Farnetica…
- Povero Belluca!
E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel naturalissimo caso. Veramente, il fatto che Belluca , la sera avanti, s’era fieramente ribellato al suo capo-uffico, e che poi, all’aspra riprensione di questo, per poco non gli s’era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse di una vera e propria alienazione mentale.
Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Bellica non si sarebbe potuto immaginare.Circoscritto…sì, chi l’aveva definito così? Uno dei suoi compagni d’ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz’altra memoria che non fosse di partite aperte, dipartite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni ; note, libri-mastri partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d’un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi. Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po’, a fargli almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S’era preso le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte.
Inconcepibile, dunque, veramente quella ribellione in lui, se non come effetto d’una improvvisa alienazione mentale. Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo-ufficio. Già s’era presentato la mattina, con un’aria insolita, nuova;e- cosa  veramente enorme, paragonabile che so?Al crollo d’una montagna- era venuto con più di mezz’ora di ritardo. Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni, non avvertiti mai. Così ilare, d’una ilarità vaga, piena di stordimento, s’era presentato all’ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente. La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:
-         E come mai? Che hai combinato tutt’oggi?
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza aprendo le mani.
-         Che significa?- aveva allora esclamato il capo-ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo—Ohé, Belluca!
-         Niente- aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impudenza e d’imbecillità sulle labbra- Il treno, signor Cavaliere.
-         Il treno? Che treno?
-         Ha fischiato.
-         Ma che diavolo dici?
-         Stanotte signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare…
-         Il treno?
-         Sìssignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia…oppure oppure…nelle foreste del Congo…Si fa in un attimo, signor Cavaliere!
Gli altri impiegati, alle grida del capo-ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi. Allora il capo-ufficio- che quella sera doveva essere di malumore- urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli. Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti si era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch’ egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più essere trattato in quel modo. Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all’ospizio dei matti […]
Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca. Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con menome mai quell’ uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita. Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta, l’altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate. Tutt’e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l’una con quattro, l’altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche aiuto alla madre soltanto. Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte queste bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi, finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa. Letti ampii, matrimoniali, ma tre. […] Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo. Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora un po’ esaltato, ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici, degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito.
-         Magari!- diceva – Magari!
Signori, Belluca, s’era dimenticato da tanti e tanti anni - che il mondo esisteva. […]
Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l’eccessiva stanchezza, non gli era riuscito d’ addormentarsi subito. E, d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno. Gli era parso che gli orecchi, chissà come, d’improvviso, dopo tanti anni, gli si fossero sturati. Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno. S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso con il pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte. C’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui il treno s’avviava…Firenze, Bologna, Torino, Venezia…tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più. Il mondo s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida ispida angustia della sua computisteria…Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari…Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentre egli qua viveva questa vita “impossibile”, tanti e tanti milioni di uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch’ egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti…Sì, sì, le vedeva, le vedeva così…C’erano gli oceani…le foreste. E, dunque, lui-ora che il mondo gli era rientrato nello spirito- poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendersi con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo. Gli bastava! Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa aria, lo sentiva. Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia…oppure…oppure nelle foreste del Congo:
-Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato. 
  
                                            DA “NOVELLE PER UN ANNO”, MONDADORI, MILANO.

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